L’elzeviro di Bonagiuso: La tragedia della piccola Antonella , si può morire anche nel virtuale

Redazione Prima Pagina Marsala
Redazione Prima Pagina Marsala
22 Gennaio 2021 17:04
L’elzeviro di Bonagiuso: La tragedia della piccola Antonella , si può morire anche  nel virtuale

Accade,  a Palermo, che Antonella, una bambina di 10 anni, con un account sull’apparentemente innocuo e divertente social TikTok (che già per il nome, non sembra incutere né terrore né sospetto negli adulti, e per la verità neanche nei bambini) finisca la sua vita appesa alla cinta dell’accappatoio, in bagno, coinvolta in quella che da ogni parte, in queste ore, ci viene descritta come Black Out Challenge, una sfida, una gara che in questo caso consiste nello stringersi una cintura attorno al collo e resistere, resistere il maggior tempo possibile.

A raccontarlo la sorellina, nelle ore seguenti lo strazio di una famiglia corsa al “Di Cristina” dopo aver invano provato a chiamare il 118. Antonella entra in coma irreversibile, e i medici non possono fare altro che dichiarare la morte cerebrale. La famiglia ha autorizzato l’espianto degli organi: parte di Antonella potrà vivere in altri bambini. Che cos’è TikTok? Un social il cui target di riferimento sono appunto i giovani e i giovanissimi che sempre di più disertano Facebook, ormai pervaso dalle urla e dagli insulti delle tifoserie delle fazioni, dai chiacchiericci degli adulti, nonché dagli scenari politici e dalle grandi testate di informazione.

Prima i giovani sono migrati su Instagram, che elude i discorsi e predilige l’immagine nuda e cruda, magari troppo, tanto che gli adolescenti e i preadolescenti non si sono trovati a loro agio su un social così stiloso e perfettino, perché Instagram ha una componente narcisistico-esibizionista che espone ad un giudizio sul proprio essere e non sul proprio essere in grado di fare alcunché. Così è nato TikTok, che ha imbarcato troppi bambini e ha inventato le “Challenge”, ovvero competizioni, pilotate dall’Influencer di turno che chiama a raccogliere la sfida: ballare, saltellare, vestirsi in modo strano, o usare un mocio vileda come asta del microfono.

Tutto molto divertente, fin qui, una specie di gioco di società virtuale, esteso a platee pressoché infinite, in cui emulare, mettersi in gioco, senza magari essere costretti a pose ammiccanti, o ad una immagine puramente estetica in grado di superare il giudizio dei pari. Epperò, chi lancia la sfida può non essere né adulto né responsabile ma chiedere a dei bambini, ripeto: a dei bambini!, di misurarsi con presunte prove di coraggio o con la morte stessa, presa come gioco di ruolo. Questo, sempre e per sempre, il limite di un social, l’essere cioè aperto a tutti, e in quel tutti ci può stare davvero chiunque e qualsiasi cosa.

Una libertà così sconfinata da farsi arbitrio. Compreso l’ambito del Social, sorge la domanda. E allora? Sarebbe opportuno che il mondo dei social venisse precluso ai ragazzini? La risposta che rischia di essere retrograda è sì! Senza alcun ragionevole dubbio! I ragazzini non possono essere proiettati né sull’odio social di Facebook, né nella competizione estetica senza regole di Instagram, né nelle Challenge non gestite da pedagogisti o genitori di TikTok. In generale un ragazzino non può essere esposto al mondo, reale o virtuale, senza un filtro.

Non gli si fa guidare una macchina perché essa ha regole di veicolazione complesse, e non gli si fa eseguire una endovena… Un bambino non può (non deve oserei dire) fare determinate cose, ovvero esplorare determinate parti di mondo, per vari ordini di ragioni, prima tra tutte, che non ha ancora acquisito la necessaria definizione del Sé, e dei suoi confini. Lo farà vivendo, non rubando la vita ad effigi, non ritrovandosi anticipato e schiacciato da una vita impari e virtuale in cui nessuno bada a parlare il linguaggio a lui adatto o a filtrare sfide compatibili con il suo sviluppo.

Ricordate in libreria i libri per ragazzi? Ecco. Se non li averte presente, andateci presto, in una libreria… La logica resta quella. Mai superata da nessuna follia del contemporaneo. I ragazzi hanno abiti per ragazzi, moda per ragazzi, acconciature per ragazzi, parole per ragazzi, libri per ragazzi, metodi per ragazzi, modelli per ragazzi, supereroi per ragazzi. Ed è addirittura ovvio! Chi scrisse Superman, scrisse Superboy, perché il mondo di Superman era alieno ad un ragazzo. Pedagogicamente e filosoficamente.

Antonella non c’è più. Ma i nostri figli sono esposti, ogni istante, alle nostre intemperanze, al nostro credere che vomitare in rete sia solo appannaggio di chi sa reggere il nostro vomito. Ed invece no. In rete c’è di tutto, come quando appunto si pesca senza paletti, e senza regole. C’è di tutto, e c’è chiunque. E dietro la parola “chiunque” si nasconde il volto, il nome e il cognome di troppi ragazzini, soli, costretti a vivere modelli a cui nessuna vita, nessuna famiglia, nessuna scuola li ha (giustamente) formati.

Esistono i libri per bambini e i libri di esercizi teatrali per bambini, perché nessuno è così pazzo da destinare improvvisazioni da adulto a dei bambini. Ecco, esiste il mondo dei bambini, e nonostante la nostra fretta e la nostra frenesia, bisognerà ricordarcene, non domani, oggi. E svoltare, con una educazione che resti educata: ex ducere, tirare fuori dal bambino. Non riempirlo come un calamaro ripieno di cose eterogenee. Social compresi! Ricordiamocelo, quando sarà finita l’emozione e il dolore lancinante del lutto.

I nostri bambini sono ancora là fuori, senza adeguata consapevolezza. Li mandereste per strada ad attraversare semafori senza comprendere il linguaggio del verde, arancione e rosso? No, certo. Quindi nemmeno sui social. Che hanno regole mutevoli, senza un filtro di gestione. In soldoni: se insegnate che si guida a destra e che il rosso del semaforo ferma le macchine, nella realtà, sui social, improvvisamente, e senza preavviso il rosso potrebbe significare ben altro.   I bambini sono bambini.

Non adulti. Ricordiamocelo, soprattutto domani.   Giacomo Bonagiuso

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