Strage di Capaci: “non hanno perquisito il casolare dove scioglievano i corpi”

Foto rubate, depistaggi, mancate perquisizioni e troppe ombre. La rabbia del fotografo Antonio Vassallo

Redazione Prima Pagina Marsala
Redazione Prima Pagina Marsala
17 Maggio 2021 09:45
Strage di Capaci: “non hanno perquisito il casolare dove scioglievano i corpi”

Una memoria di plastica, nessuna verità “certa” a 29 anni dall’esplosione sull’A29. A poco meno di 6 giorni dalla commemorazione della Strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, abbiamo riascoltato il racconto di un supertestimone. Antonio Vassallo, di professione fotografo, quel 23 Maggio 1992 alle 17.58, si trovava a pochi metri da quel pezzo di Autostrada fatto saltare in aria ed è stato uno dei primi ad accorrere sul luogo della strage. Salì sulla sua Vespa 50 Special, macchina fotografica a tracolla e, facendosi largo fra fango e detriti, arrivò fino alle autoblindate distrutte.

Antonio Vassallo ricorda lo scenario apocalittico, da film di guerra in cui, sconvolto, si aggirò, fra quei resti. Il suo racconto odierno ridelinea alcuni passaggi già ribaditi anche in trasmissioni TV come “Non è l’Arena” di Massimo Giletti e getta nuove ombre su alcune leggerezze investigative più o meno “volute”.

Vassallo, mancano pochi giorni al 29° anniversario della strage di Capaci. Lei, in un recente post pubblicato dal noto giornalista antimafia Attilio Bolzoni, ha commentato non senza una nota polemica, tutte le inadempienze compiute durante i rilievi nei giorni successivi della strage.

"Io dico che oltre al dovere della memoria che dobbiamo avere tutti i giorni e non solo per quelle che io chiamo le “Falconiadi”, dobbiamo coltivare il nostro diritto alla verità. Io voglio sapere chi ha premuto il vero telecomando e voglio sapere che fine hanno fatto le foto che io ho scattato quando sono arrivato come primo fotografo anche perché abito a pochi metri dall’accaduto".

Lei più volte ha raccontato del rullino che si sono fatti consegnare 2 persone sul luogo della strage che si sono presentate come poliziotti dicendo che l’avrebbero consegnato al “Superpoliziotto” Arnaldo La Barbera.

"Io continuo a farmi delle domande sul ruolo che ha avuto Arnaldo La Barbera sull’intera vicenda. Quando mi sono recato, quasi spontaneamente, dalla giudice Ilda Boccassini che indagava a Caltanissetta per raccontare quanto avevo visto quei pochi minuti dopo l’esplosione, le ho detto che avrebbe potuto avvalersi, per compiere le indagini, delle mie foto scattate e che mi erano state requisite e consegnate al poliziotto Arnaldo La Barbera. La Boccassini mi disse che non sapeva nulla di queste foto e che non ne sapevano nulla neanche i suoi collaboratori. L’indomani mi chiamò l’Ufficio di Arnaldo la Barbera che allora era a capo di una squadra che indagava proprio su questa strage e mi disse che le foto erano state dimenticate nella tasca della divisa di uno dei poliziotti. Io feci notare che erano in borghese entrambi ma le stranezze non finiscono qui".

In che senso?

"Mi disse che le foto, in mattinata, erano state mandate a Caltanissetta e mi invitò a non alzare polveroni perché era giusto in quei giorni “fare quadrato” intorno allo Stato messo sotto attacco. Quando pochi mesi dopo iniziò il processo, scoprii che le foto non erano state messe agli Atti. Ricordo a me stesso che Arnaldo La Barbera arrivò fra i primi a Capaci e prese in consegna la borsa del magistrato che viaggiava nella Fiat Croma accartocciata".

Come sa queste cose?

"E’ scritto nel verbale stilato dal poliziotto che tirò fuori la borsa di Falcone e che scrisse di averla consegnata nelle mani di Arnaldo La Barbera".

Lei crede che le sue foto contenessero qualcosa di strano, un dettaglio rivelatore?

"Forse ho fotografato qualcosa che non doveva essere reso noto".

Subito dopo la terribile esplosione, gli investigatori che perquisirono il luogo, trovarono 51 mozziconi di sigarette di almeno 3 marche diverse, la maggior parte, 43 complessivamente appartengono al tipo Merit, uno di marca Muratti e 7 MS. Tutti questi mozziconi sono stati trovati nel luogo che è servito da punto di osservazione ai sicari appostati per controllare l’autostrada A29 ed essere in grado di premere il telecomando nell’attimo preciso in cui le blindate dovevano saltare in aria con il tritolo accuratamente collocato in un viadotto sottostante. Lei, più volte, ha parlato di mancata perquisizione ad un casolare che si trova a 30 metri dal luogo in cui molto probabilmente erano appostati i sicari.

"Sì, certo, è quello di Giovanni Battaglia che fumava proprio le Merit, lo so per certo. Tutti parlano di luoghi, traiettorie perfette, pietre spostate, alberi potati per vederci meglio ( Attilio Bolzoni nel suo Editorialedomani Blog Mafie ndr) e nessuno pensò a perquisire un casolare che invece doveva essere “smontato” per trovare altri fondamentali dettagli. Invece, non l’hanno perquisito nemmeno 7 mesi dopo l’arresto di Giovanni Battaglia. A pensarci bene, non mi sorprendo neanche che non l’abbiano perquisito: quando hanno arrestato Totò Riina, non sono andati neanche nella sua casa di via Bernini".

Poi però il casolare l’hanno perquisito, Vassallo.

"Sì, dopo 4 anni grazie alle indicazioni di un pentito. Nel casolare hanno scoperto le vasche dove scioglievano i corpi. Emanuele Piazza e altri casi di “lupara bianca”, sono stati portati lì".

Lei che idea si è fatto in questi anni?

"Che è stata la manovalanza locale a premere il telecomando ma, conoscendo Giovanni Battaglia (era mio vicino di casa) e gli altri sicari, tutti semianalfabeti, non credo abbiano potuto architettare un piano così ingegneristicamente perfetto. Sono in tanti a chiedersi questo, anche il magistrato Nino Di Matteo, se l’è chiesto".

Bastava premere un tasto di telecomando, no?

"Bisognava colpire una macchina che passava a 140/150 Km orari, calcolando i tempi di reazione di un telecomando posto a circa 900 metri e il tutto con la tecnologia di quasi 30 anni fa. Mi pare difficile".

Lei non ha paura a raccontare queste cose?

"Continuo a vivere in quel territorio, come lo vivevo il giorno in cui è successa la strage, quella è casa mia. Non ho paura della mafia che a me, comunque, non mi ha fatto mai niente. La paura è un sentimento che quando sei giovane, non conosci e nel ’92 io ero un giovane. Oggi io sono arrabbiato".

Perché?

"Mi hanno deluso uomini dello Stato e continuano a farlo. Questa storia che racconto dovrebbe essere presa in considerazione da chi fa le indagini ed invece preferiscono fare le commemorazioni, portare avanti una memoria di plastica che non porta a nulla".

Lei continua a fare da guida portando specialmente le scolaresche sulla collinetta da dove venne premuto il telecomando.

"Sì, sempre. Quest’anno con la pandemia purtroppo no e non ho mai chiesto 1 euro per farlo, sono e resto libero, ecco perchè creo imbarazzo quando parlo, sono un cane sciolto, non ho padroni. In 12 anni, ho accompagnato almeno 30 mila ragazzi".

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