Mafia, un anno fa l’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista

Il superlatitante, morto il 25 settembre in carcere, si è portato nella tomba molti misteri…

Redazione Prima Pagina Marsala
Redazione Prima Pagina Marsala
16 Gennaio 2024 08:12
Mafia, un anno fa l’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista

Erano le ore 9,15 di un anno fa, 16 gennaio 2023, quando in un flash dell’agenzia Ansa, che in pochi minuti faceva il giro del mondo, si leggeva: “Arrestato Matteo Messina Denaro". La cattura del boss, latitante da 30 anni, ritenuto il capo di “cosa nostra”, era avvenuta pochissimi minuti prima. "Si dà atto che l'immobilizzazione e la dichiarazione di arresto sono avvenute alle 9.12", si leggerà nel verbale dei carabinieri del Ros che lo hanno catturato presso la clinica oncologica “La Maddalena” di Palermo, ove “u’ siccu” si recava periodicamente, da qualche anno, per sottoporsi a sedute di radioterapia.

Un luogo che era diventato familiare per MMD, alias “Andrea Bonafede”, il nome che aveva preso in prestito era quello di un geometra di Campobello di Mazara nipote del capomafia Leonardo. A “La Maddalena” MMD era divenuto familiare, sempre sotto falso nome, scherzava con medici e altri pazienti che aveva lì conosciuto, dispensava consigli e talvolta qualche bottiglia di olio di nocellara del Belice che si fregiava di produrre. Non si è invece nascosto quando subito dopo la cattura gli è stato chiesto il nome: “mi chiamo Matteo Messina Denaro”.

L’immagine dell’ultimo boss stragista fra due carabinieri è diventata quasi iconica: montone griffato stile anni ’80, cappellino di lana in testa e al polso un Franck Muller da circa 35 mila euro. Con Matteo Messina Denaro è stato arrestato anche un cittadino campobellese, Giovanni Luppino, gli faceva da autista nei viaggi verso la clinica palermitana. La premier Giorgia Meloni vola nel capoluogo per incontrare il procuratore e l'aggiunto Paolo Guido, i magistrati che hanno coordinato il blitz condotto dai Ros che hanno seguito una pista dopo investigativa dopo che nell’installare una microspia nella casa della sorella Rosalia del boss hanno scoperto, l’8 dicembre 2022, un pizzino sotto il piede di una sedia nel quale si descriveva il quadro clinico del fratello, malato da circa due anni di un grave cancro al colon; l’uomo nel novembre 2020 ( in quel periodo si facevano solo operazioni di urgenza considerata ancora l’emergenza covid-19), sempre sotto il falso nome di Andrea Bonafede, si era sottoposto ad un delicato intervento chirurgico presso l’Ospedale “A.

Ajello” di Mazara del Vallo, città che “Diabolik” aveva frequentato sia da uomo libero, da giovane, quando raggiungeva diversi amici per trascorrere la movida nei locali del lungomare mazarese, che da latitante, dall’attentato al commissario Rino Germanà, al tentativo di rubare il “Satiro danzante”, agli ultimi anni per gustare il buon pesce magari osservando quel mare che più volte avrebbe attraversato a bordo di qualche veloce motoscafo per raggiungere la Tunisia. Risiedeva a Campobello di Mazara, a pochissimi kilometri dalla sua Castelvetrano, città ove ritornerà soltanto dopo la sua morte avvenuta lo scorso 25 settembre nel carcere di L’Aquila, alcuni giorni dopo aver riconosciuto la figlia Lorenza.

Al di là degli interrogativi circa i tempi e le modalità del suo arresto, articoli e libri hanno posto importanti quesiti, sulla base dei documenti e delle testimonianze, su Messina Denaro, poche le risposte sulla sua vita sia da uomo libero che da latitante. I giorni dopo il suo arresto l’attenzione degli investigatori e dei media si è catapultata su Campobello di Mazara ove nei suoi covi, l’ultimo quello di via San Vito, si scoprono pizzini e appunti, tanti soldi in contanti. Individuati e arrestati anche 9 persone che costituiscono la rete dei suoi fiancheggiatori, coloro che ne hanno coperto la latitanza.

Interrogato più volte, anche per un processo di estorsione relativo ad un terreno, ha sempre negato di esser legato a “cosa nostra”, di esser un mafioso, ha voluto respingere anche le accuse, a seguito di rivelazioni di qualche collaboratore di giustizia, di esser stato responsabile dell’efferato assassinio, né tantomeno rapimento, del piccolo Giuseppe Di Matteo. Le sue risposte ai magistrati sono sembrate quelle di una persona che conosceva la fine dei suoi giorni, anche rischiando cadere in contraddizione in certi momenti, affermando ironicamente la sua posizione di “apolide” e di esser rimasto con dei beni che ne hanno permesso la latitanza senza però rivelare ove questi beni si trovassero.

Più volte ha dichiarato di non doversi pentire di niente. Da qui molte similitudini con il suo padrino, il capo dei capi, Totò Riina, che però MMD ha totalmente disconosciuto riconoscendo la sola figura paterna del padre, don Ciccio Messina Denaro. Insomma Matteo Messina Denaro (nel foto collage di copertina, a sx quando non era ancora un ricercato, a dx al momento dell'arresto dopo 30 anni di latitanza) si è portato nella sua tomba tantissimi misteri per i quali oggi si indaga, a partire dalla ricerca del suo tesoro nascosto che, secondo ultime rivelazioni potrebbe trovarsi in Svizzera, Paese ove lo stesso MMD pare fosse sfuggito per poco ad un arresto (nel 1996, pochi anni dopo le stragi di capaci, Via D’Amelio e gli attentati a Roma, Milano e Firenze), coperto presumibilmernte da prestanomi.

Altro filone di indagini riguardano la ricostruzione dei 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro. A tal proposito risulta molto interessante l’intervista rilasciata qualche giorno fa dal dott. Massimo Russo, oggi magistrato presso la Procura dei minori di Palermo, ma per dieci anni sostituto procuratore della Dda di Palermo con delega alla mafia trapanese. Russo lancia un appello proprio in prossimità del’anniversario della cattura del superboss: “Ora che con la sua cattura è caduto l'alibi della paura, chi ha visto, chi ha sentito e soprattutto chi ha capito, non abbia remore, si faccia avanti, parli e racconti ai magistrati e alle forze di polizia quello che sa.

La rigenerazione etica e sociale di questo territorio –spiega il magistrato originario di Mazara del Vallo che per alcuni anni lavorò a Marsala con il giudice Paolo Borsellino- passa da una colossale operazione di verità alla quale nessuno può sottrarsi, per rischiarare le troppe zone d'ombra nelle quali il latitante ha potuto impunemente vivere, relazionarsi e coltivare i suoi interessi criminali". Russo parla anche della rete dei fiancheggiatori che hanno favorito la latitanza di MMD, ed in particolare quella relativa a Campobello di Mazara ove pare abbia vissuto diversi anni, gli ultimi prima, di esser catturato.

Lui sapeva certamente a chi rivolgersi - dice Russo - mentre non è affatto vero che l'intero paese sapesse, come qualcuno azzarda assai superficialmente criminalizzando le tante persone per bene, la maggior parte, che si aspettavano quantomeno maggiore efficienza da parte di chi ha il preciso dovere del controllo del territorio". Un ruolo fondamentale nella sua latitanza lo ha avuto la famiglia Bonafede.

"E ciò non a caso - osserva Russo - perché la storia giudiziaria racconta che il capostipite Leonardo Bonafede, uomo d'onore e già ai vertici della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, era molto riconoscente a Francesco Messina Denaro che gli salvò la vita facendosi garante nei confronti di Totò Riina che aveva deliberato la morte di coloro che appartenevamo alla vecchia mafia durante l'ascesa dei corleonesi.

Così Russo conclude: “Ma il cerchio delle persone che hanno aiutato Matteo Messina Denaro è molto più ampio. Ci sono stati i favoreggiatori e sono tanti, ma c'è chi, invece, sapeva perfettamente chi fosse ma non parlava, forse anche per paura adesso è finito il tempo dell'attesa, è l'ora della verità".

Francesco Mezzapelle 

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