Terremoto Belice, quando "L'Ora" lo definì «Uno spettacolo da bomba atomica»

Il Belice non ha mai avuto giustizia ma ha avuto un giornale che l'ha difeso e gli ha dato voce

Redazione Prima Pagina Marsala
Redazione Prima Pagina Marsala
15 Gennaio 2024 15:41
Terremoto Belice, quando

Sono passati 56 anni dal terremoto che, in pochi secondi, rase al suolo la valle del Belice.

Tante le vittime, i feriti e chi, da un momento all’alto, si ritrovò senza un tetto in cui vivere. Il sisma, infatti, mise drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza in cui vivevano quelle zone della Sicilia Occidentale: le costruzioni dei paesi danneggiati, in gran parte abitazioni in tufo, crollarono senza scampo. La cittadinanza colpita dal terremoto era composta per lo più da anziani, donne e bambini, perché gli uomini in età lavorativa avevano cercato fortuna altrove.

È chiaro che lo Stato conosceva la situazione ma, fino ad allora, l’aveva profondamente trascurata e, anche in seguito al dramma, si rivelò (insieme alla Regione) manchevole, sia nell’organizzazione dei soccorsi sia nelle prime opere urgenti di ricostruzioni.

Particolare attenzione all’evento fu data dal giornale palermitano “L’Ora” che, dopo la notizia arrivata in piena notte, si mobilitò subito. Il direttore di allora, Vittorio Nisticò, chiamò subito i suoi giornalisti e li inviò nella valle del Belice.

Uno dei primi giornalisti arrivati per primi a Gibellina fu Mauro De Mauro (redattore che, due anni dopo, fu rapito da Cosa Nostra e non fu mai più ritrovato). Proprio De Mauro documentò per primo la totale distruzione del paese. Qualche ora dopo, da Salemi, lo stesso De Mauro, tramite l’unico telefono pubblico ancora funzionante, dettò agli stenografi il suo articolo uscito in edizione straordinaria, con sette pagine di notizie e fotografia. 

“L’Ora” titolò: Interi paesi distrutti dal terremoto in Sicilia. Centinaia di morti sotto le macerie. Uno spettacolo da bomba atomica.

L’incipit del reportage di De Mauro, invece, dichiarava: Gibellina è stata cancellata. Dei settemila abitanti quelli che non sono sulla strada, in un doloroso esodo per raggiungere paesi vicini, sono ancora sotto le macerie. Nel centro del paese non si può entrare. Tutte le strade sono bloccate. Dalla circonvallazione si sentono grida di aiuto.

Da quel giorno, “L’Ora” raccontò per anni il terremoto del Belice grazie alle firme di Orazio Barrese, Mario Farinella, Marcello Cimino, Salvo Licata, Bruno Carbone, Mario Genco, Mauro De Mauro, Giacomo Galante, Gianni Lo Monaco, Leonardo Sciascia, Felice Chilanti e Nat Scammacca. 

Il giornale fu uno dei pochi a denunciare i ritardi nei soccorsi ai terremotati. Proprio su questo tema si concentrò Leonardo Sciascia in un editoriale rimasto nella storia del giornale.

Le ultime notizie che abbiamo avuto ieri sera dalla televisione e dalla radio, tristissime accorate e accompagnate da immagini e descrizioni del disastro veramente apocalittiche (e c’era a Palermo, negli slarghi delle piazze e nella campagna di periferia, dal primo pomeriggio alla notte, un’aria da anno mille che si tentava di rovesciare in kermesse intorno a fuochi di sterpi e a deschi improvvisati sulle panchine), tra tanta pena insinuavano, e anzi assicuravano, la rapidità ed efficienza dei soccorsi e dei provvedimenti: per cui chi, come noi, nel giro degli ultimi anni ha visto l’inefficienza e lentezza con cui lo stato si è manifestato nell’alluvione che ha colpito la Toscana e nella frana che ha colpito Agrigento, ha avuto l’impressione che veramente qualcosa fosse cambiata in Italia.

Ma la prima notizia che stamattina abbiamo letto su un giornale dice invece della lentezza con cui la macchina dei soccorsi si muove, e che alle quattro del pomeriggio di ieri, cioè dodici ore dopo la sciagura, a Santa Margherita Belice non era ancora arrivate né una tenda, né una pagnotta, né una coperta. Niente è dunque cambiato e in nessun caso dobbiamo farci illusione che cambi. Quello che invece scatta con puntuale efficienza è il triste rituale demagogico e il richiamo alla unità e solidarietà sentimentale di un paese disunito, pieno di contrasti e di contraddizioni. E di fronte alle immagini di Gibellina distrutta ci pareva di sentire i commenti di certa gente al cui cuore fanno appello certi giornali del nord quando aprono sottoscrizioni “Vivono in case fatte di pietra e gesso, quelli lì”, “mica conoscono il cemento, quelli lì” e così via.

La stessa voce, lo stesso accento, da cui abbiamo sentito che in Sardegna ci vorrebbero le bombe che gli americani impiegano contro i vietcong e che in Sicilia, salve (non si sa come) le brave persone che forse ci saranno, ci vorrebbe addirittura l’atomica; quella stessa voce da cui qualche volta ci tocca ricevere il complimento che non sembriamo siciliani. Quelli lì, lì a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono, quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli; pulviscolo umano disperso al vento dell’emigrazione e che lo stato soltanto pesa nella bilancia dei pagamenti internazionali; quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e col mulo, quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade.

E al Presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo di dover dire che egli rappresenta un paese tremendo, dilacerato da contrasti e ingiustizie che sotto quiete apparenze non sono meno gravi di quelli che in altri paesi del mondo sanguinosamente si dispiegano. E che la Sicilia, stanca, muore giorno dopo giorno anche senza l’aiuto delle calamità naturali.

Ma “L’Ora” fu anche il giornale che fece conoscere la piccola Eleonora Di Girolamo, salvata dalle macerie a distanza di 72 ore dal terremoto ma poi morta a Palermo quattro giorni dopo: la foto di Nicola Scafidi della madre riversa sulla bara aperta della sua Cudduredda fece il giro del mondo e diventò il simbolo del terremoto del Belice.

Grazie ad un reportage di Bruno Carbone, accompagnato da venti disegni a matite colorate trovati tra le macerie della scuola elementare di Montevago, si diede inizio ad una sottoscrizione popolare tra i lettori per la costruzione di una scuola materna a Montevago.

Tante poi le inchieste realizzate, come quella di luglio dedicata agli uomini responsabili della Nazione e in particolare al Capo dello Stato, ai senatori e ai deputati che aveva l’obiettivo di fare un “sopralluogo e rapporto sulle condizioni delle popolazioni del Belice a sei mesi dalla tragedia. 

Di bolgia in bolgia, nelle baracche, nelle tende e nei vagoni”. Nel dossier fu inserito anche un reportage di Leonardo Sciascia dal titolo «Sono stato nei lager della Valle del Belice». 

Sciascia sfidò Saragat, Presidente della Repubblica, e Leone, Presidente del Consiglio, scrivendo: Noi proponiamo che l’onorevole Leone venga, per qualche giorno, ad esercitare il suo alto ufficio nelle baracche in cui i sindaci di Santa Ninfa e Montevago esercitano il proprio. Anche L’onorevole Saragat dovrebbe vivere per qualche giorno in una delle baracche del Belice.

Nonostante lo scarso interessamento da parte dello Stato, "L’Ora" continuò a lavorare instancabilmente e, grazie al giornale, un anno dopo il terremoto venne inaugurata la nuova ‘Scuola Materna L’Ora’ ricostruita grazie alle sottoscrizioni dei lettori ad est delle baracche del Villaggio Trieste, proprio nel cuore dell’area dove i cittadini di Montevago, con un referendum, avevano deciso di costruire il nuovo paese. 

Nel gennaio 1970 "L’Ora" pubblicò un ulteriore dossier, «Il Calvario del Belice» dove si leggeva che, a distanza di due anni, non vi erano case ricostruite. Erano 90mila le persone che vivevano nelle baracche, 7mila gli emigrati dopo il terremoto. La situazione non cambiò nel 1971 e "L’Ora" fu sempre vicino alle popolazioni del Belice che, qualche anno dopo, si ribellarono alla leva per far nascere in Italia il primo servizio civile alternativo a quello militare. 

Nel 1975 "L’Ora" denunciò come, nonostante fossero stati spesi 160 miliardi, la ricostruzione fosse ferma. 

Nel 1978, a dieci anni dal terremoto, i comuni e i cittadini gestirono la ricostruzione e Marcello Cimino scrisse che il Belice "si rimette in piedi da solo”. Un nuovo scandalo, però, colpì i paesi terremotati. La procura, infatti, aprì un’inchiesta sulle speculazioni, che vide coinvolti burocrati e imprese. Si parlò di sprechi, errori e appalti con ditte fantasma. 

L’inchiesta andò avanti per anni e i soldi spesi per la ricostruzione furono più di quelli che, oggi, equivalgono a 6 miliardi di euro. La ricostruzione non ebbe mai fine e ancora oggi il Belice non ha avuto giustizia. Ma ha avuto un giornale, "L’Ora", che l’ha difeso e gli ha dato voce.

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